Il 28 luglio, come ogni anno, si celebra la Giornata mondiale delle epatiti promossa dall’Oms. Un anniversario quest’anno reso più importante dalla trascuratezza che ha colpito queste patologie: pesa infatti l’attenzione riservata alla pandemia da Sars-Cov-2. L’esame delle notifiche pervenute al Seieva – il Sistema epidemiologico integrato delle epatiti virali acute coordinato dall’Iss – nel 2020 mostra che il numero di casi notificati di epatite virale è in netta flessione a partire da marzo 2020 rispetto agli anni precedenti. Molto probabilmente le misure di contenimento adottate per la pandemia hanno contribuito a diminuire anche il rischio di contrarre altre malattie infettive, tra cui l’epatite, sebbene sia indubbio anche che l’interesse massimo sulla pandemia possa aver ridotto l’attenzione su altre patologie per diagnostica e conseguente notifica. Proprio questi dati devono spingere a non perdere l’attenzione sulle epatiti, per le quali esistono forme di prevenzione e di trattamento molto efficaci. L’impegno per sconfiggere questi virus viene portato avanti dagli infettivologi della Simit, Società italiana di malattie infettive e tropicali e dagli epatologi dell’Aisf, Associazione italiana per lo studio del fegato.
Il distanziamento sociale
“Le misure di contenimento e distanziamento sociale imposte dalla pandemia hanno probabilmente ridotto, almeno nei Paesi industrializzati, la diffusione delle altre malattie infettive, non solo quelle trasmissibili per via aerea, come l’influenza e il raffreddore, ma anche di quelle trasmesse sessualmente o per via parenterale o alimentare, queste ultime per una maggiore attenzione all’igiene. I primi dati quindi segnalano una flessione anche per quanto riguarda l’incidenza delle epatiti virali che, se confermata, rappresenterebbe un’importante lezione della quale tener conto anche in futuro, proseguendo la lotta contro queste malattie – osserva il professor Massimo Galli, past president della Simit e referente per le epatiti per la società scientifica degli infettivologi italiani –. Esistono tuttavia aspetti negativi associati alla pandemia le cui conseguenze meritano un’attenta valutazione. Anche se non sono ancora disponibili dati completi riguardanti questi due ultimi anni, è verosimile che una flessione delle vaccinazioni anti HBV possa essere avvenuta e che si renda quindi necessario recuperare le mancate vaccinazioni. È invece clamorosamente evidente la flessione dei trattamenti dell’epatite C, che mette in discussione la possibilità di conseguire l’obiettivo dell’eliminazione della malattia fissato dall’Oms per il 2030. Questo fenomeno, certamente accentuato dalla pandemia, viene però da più lontano ed era già evidente a partire dal 2018, come conseguenza del ritardo degli interventi per l’emersione del sommerso. Ora è cruciale che si lavori in questa direzione, con un adeguato impiego dei fondi stanziati nel febbraio del 2020. Tocca anche riprendere un’efficace opera di sensibilizzazione nella popolazione: recenti esperienze in cui si è associato lo screening per Covid con quello per l’Epatite C attuate in Lombardia dimostrano il permanere di un non trascurabile numero di infezioni da HCV in persone del tutto inconsapevoli della loro condizione”.
Le soluzioni
L’attenzione dei clinici è rivolta soprattutto alle Epatiti B e C, quelle dagli effetti più gravi, talvolta letali. Sono considerate una minaccia per la salute pubblica, in quanto se cronicizzano, provocano complicanze nel tempo anche fatali come la cirrosi e il tumore epatico. Tuttavia, l’Epatite B può essere prevenuta con il vaccino, mentre l’Epatite C si può curare con farmaci efficaci e risolutivi, tanto che l’OMS aveva fissato l’obiettivo della sua eliminazione entro il 2030, un risultato reso raggiungibile grazie ai nuovi farmaci antivirali ad azione diretta (DAA), che permettono di eradicare il virus in maniera definitiva, in tempi rapidi e senza effetti collaterali. “La pandemia ha rallentato la marcia dell’Italia verso l’eliminazione dell’Epatite C – evidenzia il professor Massimo Andreoni, direttore scientifico Simit –. A febbraio 2020, il governo ha stanziato 71,5 milioni di euro per effettuare gli screening tra i nati tra il 1969 e il 1989, oltreché tra tossicodipendenti e detenuti. Alcune regioni si sono già attrezzate, altre stanno affinando i modelli. È un impegno di primaria importanza, visto che l’Epatite C è ancora altamente endemica in Italia, con centinaia di migliaia di persone che devono essere diagnosticate. Per quanto riguarda invece l’Epatite A e B, invece, abbiamo a disposizione vaccini validissimi, che permettono di prevenire l’infezione. Per l’HBV in Italia il vaccino abitualmente viene somministrato intorno ai 12 anni; per l’Epatite A deve essere fatto dalle persone a rischio. Per quest’ultima non vi sono farmaci, mentre per l’Epatite B le terapie disponibili permettono di controllare l’infezione, ma non di eradicarla; la vaccinazione resta quindi l’arma principale”.
“La Giornata mondiale contro le epatiti serve per non dimenticare queste patologie – aggiunge Marcello Tavio, presidente Simit –. Vi sono diversi programmi volti a ricercare il “sommerso” per eliminare l’infezione da strati sempre più ampi della popolazione. Istituzioni e società scientifiche sono da anni impegnate in queste attività di screening e trattamenti, recentemente rallentate dal Covid, ma adesso, grazie alla campagna vaccinale, abbiamo l’occasione di ripartire e di mettere in pratica le strategie precedentemente ipotizzate”.
Le nuove difficoltà
Come riportato dai dati dell’Iss nel 2020 sono stati segnalati 19 nuovi casi di epatite C acuta, con un’incidenza di 0,04 casi per 100mila abitanti, un dato probabilmente sottostimato per la pandemia. “In questo anno e mezzo vi è stata una diminuzione significativa sia delle diagnosi che dei pazienti trattati – sottolinea il professor Alessio Aghemo, segretario Aisf –. Solo a maggio 2021 la situazione è migliorata, sebbene l’accesso alle strutture sanitarie sia ancora limitato e incomba il rischio di una nuova emergenza. A causa di questo rallentamento nei trattamenti di eradicazione dell’Epatite C, l’Italia non è più in linea con l’obiettivo dell’Oms, che si sarebbe potuto perseguire solo con il trattamento di 30-45mila pazienti l’anno, un ritmo di marcia ampiamente disatteso. Gli effetti sul lungo periodo rischiano di essere particolarmente negativi: gli studi realizzati da Aisf sull’impatto della pandemia a livello mondiale prevedono un notevole incremento di morti da qui a venti anni a causa di mancate diagnosi e controlli; sebbene l’Epatite C abbia una lenta progressione, le sue conseguenze possono essere letali”.
I casi virtuosi
Lo stanziamento dei fondi per la ricerca del “sommerso” ha assegnato alle Regioni la gravosa responsabilità di delineare delle strategie volte a intervenire in maniera più incisiva. In questi primi mesi, tra le Regioni che si sono distinte per un approccio più virtuoso, forte anche dell’esperienza maturata negli anni precedenti, vi sono Lombardia e Campania. “Nella gestione dell’Epatite C, la Lombardia è sempre stata eccellente, vantando tempi di attesa limitati e sistemi di cura efficienti – spiega il professor Aghemo –. Dopo il trauma della prima ondata della pandemia, nei mesi invernali, rispetto ad altre regioni, l’attività non ha rallentato più di tanto. Inoltre, per favorire l’emersione del sommerso, vi erano delle strategie già in cantiere, così abbiamo applicato dei modelli già varati, mirando alle cosiddette popolazioni speciali, quali quelle accolte da carceri e SerD. Inoltre, in varie strutture sta partendo un lavoro di diagnosi intraospedaliera, mediante il quale si unisce lo screening per l’Epatite C alla vaccinazione anti-Covid”.
La Campania
“La Campania ha il triste primato di avere una delle più alte prevalenze di infezione da virus C, ma nella nostra regione esiste un tavolo tecnico che è al lavoro sin da quando sono stati introdotti i primi farmaci innovativi – sottolinea il professor Mario Masarone, ricercatore presso l’Università di Salerno e membro del comitato direttivo Aisf –. Lo stanziamento di fondi ha assegnato alla Campania 3 milioni per il 2021 e 4 per il 2022. Il tavolo tecnico si è soffermato sulle popolazioni più a rischio di avere un’infezione misconosciuta, così come dettato dal decreto: circa 1 milione 670mila persone ricadono nella fascia d’età nata tra il ’69 e l’89, ossia circa il 10% degli abitanti della Regione. Per raggiungere questi pazienti, le nostre attività si sviluppano sia in un’opera di sensibilizzazione con campagne pubblicitarie e informazione sui media, sia in un coinvolgimento degli operatori sanitari, a partire da quelli più vicini ai cittadini, quali medici di famiglia e farmacisti. Inoltre, si sta valutando l’utilizzo di ‘Sinfonia’, il sistema regionale di screening del Covid. Parallelamente, abbiamo in programma di recuperare quanto già fatto nei SerD e nelle carceri di numerose provincie, come i programmi ad hoc realizzati nelle strutture di Salerno e Caserta. Ora bisogna prendere quelli che finora sono stati solo dei progetti pilota e farli diventare ‘sistema’. Finora abbiamo rilevato che circa il 40% dei pazienti dei SerD è positivo e la metà di loro non sa di esserlo. Nella popolazione carceraria circa il 10-13% è infetto e anche qua circa la metà lo ignora. Spesso poi non è facile per queste popolazioni l’accesso alle cure”.
Epatiti Delta ed E
A completare il quadro delle epatiti, vi sono la Delta e la E. Il virus dell’epatite D per infettare le cellule epatiche richiede in particolare l’ausilio del virus dell’epatite B, quindi l’infezione si manifesta in soggetti colpiti anche da HBV. Le misure preventive sono analoghe alla profilassi per l’HBV: il vaccino contro l’epatite B è in grado di proteggere anche contro l’epatite D. Anche l’epatite E è una malattia virale acuta, generalmente autolimitante e molto raramente soggetta a cronicizzazione, con caratteristiche cliniche simili a quelle dell’epatite A. Si stima che 1/3 della popolazione mondiale sia stata esposta al virus e che ogni anno 20 milioni di persone acquisiscano l’infezione, con almeno 600 mila decessi ogni anno. In Italia, negli anni 2007-2018 si è assistito ad un trend in continuo aumento dei casi di epatite E segnalati al Seieva, con un picco nel 2019, anno in cui vi è stato un numero di casi raddoppiato rispetto all’anno precedente (98 casi rispetto ai 49 del 2018). Nel corso del 2020 sono stati segnalati solo 24 casi, con una diminuzione in linea con gli altri tipi di epatite e probabilmente correlata con lo stato pandemico.