Il granaio d’Italia in versione cooperativa, oggi riversa in grande crisi e molte aziende sono a rischio di chiusura, tra guerra, pandemia, rincari, condizioni climatiche avverse e limiti troppo restrittivi imposti dalla Pac. E’ questa la fotografia della produzione e lavorazione del mais in Italia scattata in occasione del convegno Il mais è ancora una coltura per il futuro? organizzato da Confcooperative Vicenza e Fedagripesca Veneto e il patrocinio di Ismea all’hotel Viest di Vicenza. Partiamo dai numeri dell’autoapprovvigionamento, dato dal rapporto tra la produzione agricola e i consumi, dal 2000 al 2020. Nel caso del mais, si è passati dalla sostanziale autosufficienza dei primi anni 2000 a poco più del 40% nel 2022. Una situazione difficile soprattutto per regioni maidicole come il Veneto e il Friuli che vedono una diminuzione della superficie investita a mais dal 2000 al 2020 rispettivamente di -44.8% la prima, di -48,4 % il Friuli. Allo stesso modo è calato drasticamente anche il numero delle aziende dedite a questa coltura, ancora una volta soprattutto a Nordest, con numeri che parlano di – 72,2% In veneto, -71% in Friuli contro una media italiana di -71.9%. E se le Regioni più in difficoltà sono Veneto, il Friuli Venezia Giulia, la Lombardia e in parte l’Emilia Romagna,i produttori più colpiti sono le cooperative agricole, che da sole lavorano il 40% del mais italiano, prodotto che arriva direttamente dal territorio, dai soci.

E’ colpa della Pac?

Secondo il professor Angelo Frascarelli, presidente di Ismea, le strade da percorrere per uscire da questa profonda crisi devono esulare dalle limitazioni imposte dalla Pac 2023-2027, che vincola le imprese agricole ad una rotazione di colture, impedendo sostanzialmente di coltivare consecutivamente lo stesso campo a mais. “L’impatto della nuova Pac – afferma Frascarelli – comporta una riduzione dei sostegni in media di circa 90 euro per ettaro. Ciò che farà la differenza nel futuro del settore del mais sarà altro, e in particolare il collegamento con il settore zootecnico e le grandi filiere produttrici di formaggi e prosciutti Dop, per cui l’utilizzo del mais per il foraggio del bestiame è indispensabile”. Non è dello stesso avviso il professor Amedeo Reyneri dell’Università degli Studi di Torino, secondo cui “la Pac europea, scritta in un periodo precedente alle congiunture negative degli ultimi 24 mesi (aumento costi materie prime, aumento costi energetici, crisi Ucraina), è vero che non impatta poi così tanto sulla redditività per ettaro, ma costringe a ridurre notevolmente la produzione, mettendo in ginocchio le cooperative e le imprese”. Si trova invece assolutamente d’accordo sull’importanza strategica di collegare la coltura del mais alle grandi filiere di eccellenza, per sostenere la redditività e dare un segnale di compattezza, e considera questo fronte il vero punto di svolta per il settore, assieme alla necessità impellente di investire in irrigazione.

Innovazione fondamentale

Un’altra opzione per affrontare questi problemi si prospetta: “L’innovazione è fondamentale e la cooperazione in questo senso è necessaria perché determinati costi sono difficilmente sostenibili per i piccoli e medi proprietari. Attraverso la cooperazione la possono delegare a un soggetto che non deve essere competitivo, la cooperativa, che dà la possibilità a tutti di ottenere risultati – spiega Ugo Campagnaro, presidente di Confcooperative Veneto – Qui non si tratta solo di mais, ma anche di manutenzione del territorio, perché un terreno agricolo abbandonato è un luogo di infestazione di animali e piante nocive. Come evitare ciò? Coltivando. Il mais si presta bene in zone dove non si può coltivare altro. Creare un futuro tramite la cooperazione tra i piccoli e medi e dare loro la possibilità di valorizzare la loro produzione è fondamentale per tutta la società”. Oggi si assiste infatti ad un aumento vertiginoso delle importazioni e un parallelismo nella maggioranza dei casi tra i costi di coltivazione e quelli di vendita, con ricavi ridotti all’osso. Complice di questo è anche l’apertura dei corridoi umanitari con l’Ucraina i produttori italiani vedono i grandi compratori preferire il grano estero, soprattutto ucraino, perché più economico.

Il prodotto italiano e cooperativo fermo nei magazzini

“Noi non siamo commercianti, ma cooperatori – spiega Emilio Pellizzari, presidente di Grandi Colture Confcooperative Veneto e amministratore delegato di Agriberica – e sono 3 mesi che non vendiamo mais, con i magazzini pieni. Con la situazione presente e soprattutto futura le nostre cooperative saranno ridotte al lumicino. Con le nuove strategie europee abbiamo infatti seminato sempre meno ed è per questo che abbiamo voluto incontrarci e confrontarci per capire cosa sta subendo il mais italiano, per capire come reagire e come cercare di aiutare le nostre cooperative”. Gli Stati extra Ue infatti in questi anni hanno potuto investire in ricerca, sperimentazione genetica e politiche agricole mentre gli stati membri e l’Italia in primis hanno rese stazionarie rispetto a incrementi importanti di questi ultimi stati. Il mais dunque è una coltura per il futuro? Secondo Amedeo Reyneri assolutamente si’: “Il mais a livello internazionale è di fatto la coltura che ha avuto la più grande crescita. Sarebbe un’anomalia se l’Italia si trovasse nella situazione opposta. Dobbiamo però lavorare a fondo, il cambiamento climatico è molto problematico, e le normative stringenti mettono in seria difficoltà i bilanci delle imprese produttrici. Dobbiamo far capire che il mais ha delle potenzialità talmente alte, anche in termini ambientali, ed è possibile coltivarlo anche con le attuali normative. Non si tratta di cambiare la normativa, ma di renderla flessibile: abbiamo i margini per coltivare mais attraverso le innovazioni offerte dal mercato”.